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26 Maggio 2025

Coprogettazione: le sfide del welfare del futuro e l’etica del conflitto

di Alessandro Logi

Tradizionalmente, tra pubblico e terzo settore, per quanto riguarda la progettazione e l’erogazione di servizi rivolti alla comunità, è sempre esistito un rapporto committente-fornitore: l’istituzione pubblica progetta e struttura il servizio, mentre l’ente di terzo settore si preoccupa di realizzarlo. Questo modello, che vediamo riprodotto principalmente nello strumento dell’appalto, prevede un’organizzazione gerarchica e fortemente asimmetrica: è l’ente pubblico che prende in mano la situazione sin dall’inizio, mentre il terzo settore assume il ruolo di mero esecutore che si attiene alle direttive del pubblico.

Coprogettazione: che cos’è?

Le cose iniziano a cambiare con la Legge 328/2000 o “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”. In particolare, l’articolo 1, comma 5, stabilisce che gli enti privati orientati al sociale possono partecipare alla progettazione dei servizi alla comunità.

A partire da questa legge, infatti, inizia a diffondersi una modalità di lavoro che, negli anni successivi, avrebbe assunto un’importanza sempre maggiore: la coprogettazione. Essa presenta una duplice definizione: da un lato, può essere vista come uno strumento amministrativo per affidare e gestire iniziative e interventi sociali attraverso una partnership tra pubblico ed enti privati; dall’altro lato, si configura come metodo di lavoro per costruire politiche pubbliche coinvolgendo diversi tipi di risorse e punti di vista. Lo scopo della coprogettazione è l’integrazione di diversi tipi di risorse (economiche, sociali, culturali ecc.) al fine di rinnovare il sistema del welfare, generando nuove modalità per affrontare i problemi sociali.

Basandosi sui principi di sussidiarietà, solidarietà e cooperazione, la coprogettazione mette pubblico e terzo settore sullo stesso piano. La logica committente-fornitore viene messa da parte a favore di una di partenariato, in cui gli enti partecipanti sono tutti equamente coinvolti nel progetto a partire dal sondaggio dei bisogni del territorio fino alla fase valutativa post-realizzazione.

La coprogettazione si sviluppi su tre livelli reciprocamente interconnessi:

  • Istituzionale: è necessario formulare norme che garantiscano la paritarietà del rapporto attraverso la definizione dei ruoli.
  • Progettuale: serve una definizione condivisa di obiettivi, strategie, azioni, secondo una prospettiva generativa e innovativa che valorizzi le corresponsabilità e contitolarità pattuite.
  • Gestionale: sviluppo e realizzazione congiunta di quanto progettato (cogestione).

Il problema delle culture organizzative

La coprogettazione rappresenta, dunque, un ottimo strumento per realizzare progetti partendo dai bisogni del territorio. Tuttavia, essa presenta delle criticità, la maggior parte delle quali riguarda il rapporto tra enti che sono diversi tra loro non solo da un punto di vista strutturale, ma anche (anzi, soprattutto) nel modo di vedere le cose.

De Ambrogio e Guidetti, nel loro volume (La coprogettazione. La partnership tra pubblico e terzo settore, Carocci, Roma, 2016), spiegano il problema a partire dal concetto di “cultura organizzativa”, con cui si intende la “personalità” di un’organizzazione, caratterizzata da set di abitudini e comportamenti esibiti dai membri e accompagnati da valori, sentimenti e credenze. Esistono, secondo gli autori, cinque diverse culture organizzative:

  1. cultura della coesione: modello quasi familiare, tipico di certe piccole e medie imprese; punta sul senso di appartenenza dei membri e su una forte condivisione di valori. Nella sua versione più radicale, diventa paternalistica e rischia di cadere nell’isolamento dal mondo esterno.
  2. cultura dell’ordine : tipica delle multinazionali, ma anche di certe ASL e aziende ospedaliere, è orientata al raggiungimento del risultato. La versione più radicale, detta efficientista, porta alla svalutazione dei bisogni individuali a favore dell’efficienza, in quanto i dipendenti sono visti come ingranaggi di un meccanismo.
  3. cultura della sfida: tipica di movimenti sociali e politici, associazioni e organizzazioni legate all’idea di innovazione del prodotto; l’idea chiave è quella dell’andare costantemente avanti con idee innovative. Il rischio è quello di cadere nello spontaneismo, cioè in una forma di “anarchia” in cui possono insorgere numerose microconflittualità tra individui e nei gruppi di lavoro.
  4. cultura delle regole e delle procedure: tipica delle pubbliche amministrazioni, persegue l’equità di trattamento dei cittadini. Portata all’estremo, diventa una cultura burocratica, i cui difetti sono la scarsa produttività, l’induzione all’assenteismo e l’attribuzione di responsabilità ad altri ma soprattutto un rigido attenersi a quello che si “deve” fare.
  5. cultura dell’obbedienza: tipica di eserciti, carceri, monasteri e forze dell’ordine, ma anche di certi ambienti aziendali, prevede come valore chiave la disciplina. Il rischio è quello di cadere in un sistema chiuso in cui regna un clima di repressione, dove si lavora fino al sovraccarico di lavoro perché si teme la sanzione.

Secondo questa divisione, gli enti pubblici tendono verso la cultura delle regole e delle procedure e a quella dell’ordine. I loro punti di forza sono l’efficienza e l’imparzialità nell’applicazione delle norme, ma rischiano di cadere nel burocratismo e nella rigidità nei confronti di situazioni e bisogni particolari.

Gli enti di terzo settore, invece, tendono verso la cultura della coesione e a quella della sfida, talvolta verso quella dell’obbedienza. Il loro contributo è fondamentale per perseguire un’idea di innovazione attenta ai bisogni specifici del territorio, ma rischia soprattutto di cadere nello spontaneismo e, di conseguenza, nella conflittualità verso l’interno e verso l’esterno. Inoltre, il terzo settore, se vuole davvero rendersi protagonista nella creazione di servizi utili alla comunità, deve superare una mentalità ancora radicata da “second mover”, per cui le cooperative nel processo di progettazione sono semplici assistenti del pubblico, e adottare piuttosto una mentalità innovativa e generativa di cambiamento.

La negoziazione: etica della gestione del conflitto

Da quanto detto, risulta evidente che i protagonisti della coprogettazione sono realtà molto diverse, se non in aperto contrasto tra loro. Affinché la coprogettazione possa funzionare, pertanto, è necessario imparare a gestire il conflitto.

De Ambrogio e Guidetti osservano che, nell’ambito della coprogettazione, i contrasti sono spesso legati alle risorse e alla loro ripartizione tra i partecipanti. Ancora più frequenti e ostici, però, sono i conflitti relativi a ruoli e responsabilità, in cui spesso si tende a rivendicare il proprio potere o ad addossare le proprie responsabilità agli altri. A peggiorare la cosa, poi, c’è il fatto che le incompatibilità sul piano personale si possono riflettere su quello professionale.

La soluzione sta nel definire in maniera chiara e precisa ruoli e responsabilità adottando un’ottica negoziale. La negoziazione è un complesso di trattative condotte per giungere ad un accordo, coordinando gli interessi delle parti, consolidando i rapporti, contenere i conflitti e generare risorse. Si tratta di un canale comunicativo indispensabile nelle questioni complesse da svolgere insieme ad altre persone, ripartendo equamente ruoli e responsabilità e stabilendo aree di intervento, tempistiche, modalità ecc.

La presenza di terzi è fondamentale per la riuscita del processo di negoziazione. Spesso possono intervenire veri e propri mediatori professionisti, il cui ruolo è di offrire un punto di vista neutrale, non nel senso etimologico di “nec utrum“ (“nessuno dei due”, come nel caso del giudice), ma nel senso di “questo e quello contemporaneamente”. In questa accezione, infatti, neutrale non vuol dire imparziale, ma capace di vedere dall’esterno i punti di vista e proporre una via di mezzo, un compromesso.

Gli enti stessi in primis, tuttavia, devono essere disposti a riconoscere e superare impasse relative alla negoziazione. Alcuni accorgimenti utili da tenere a mente, in questa situazione, possono essere:

  1. riconoscere i blocchi di dialogo: ci sono atteggiamenti che interrompono il flusso comunicativo e il legame emotivo ad esso funzionali; bisogna riconoscere il blocco e saper intervenire su di esso portando l’interlocutore a esplicitare il proprio punto di vista con atteggiamento non giudicante
  2. il dono della sintesi: sintetizzare le posizioni permette di trovare immediatamente il punto della discussione e comprendere su cosa bisogna lavorare;
  3. usare i riconoscimenti: la mancanza di riconoscimenti positivi è alla base di molte conflittualità; il riconoscimento è fondamentale per supportare e incentivare all’azione i propri collaboratori.

In conclusione, la coprogettazione è uno strumento fondamentale per un welfare innovativo e attento ai bisogni della comunità, ma affinché possa funzionare è necessario che chi vi partecipa deve saper adottare una forma mentis orientato al dialogo e alla negoziazione.

*Foto di Aymanejed (Pixabay)

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