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28 Marzo 2024

L’Abitare collaborativo è una faccenda femminista?

Di Alessia Macchi, Cooperativa Casae, e alcune abitanti di Freedom

Lo spazio domestico gioca da sempre un ruolo fondamentale nelle dinamiche di genere. La funzione della donna è stata identificata per secoli con il lavoro riproduttivo, relegato nella sfera privata degli ambienti domestici, perpetrando così nello spazio fisico delle abitazioni la divisione sessuale delle mansioni ritenute “femminili” - la cucina, l’allevamento dei figli, la cura di persone non autonome, la gestione della casa - da quelle ritenute “maschili” - il lavoro produttivo, quello politico e di rappresentanza.

La casa per molte donne ha rappresentato - o rappresenta - un simbolo di rinuncia alla realizzazione di sé, di dedizione al lavoro di cura non retribuito, di difficoltà di gestione casa-famiglia-lavoro, di isolamento e anche di violenza. Insomma un “angelo del focolare” che si trova a vivere quotidianamente in un inferno. L’architettura dell’abitare è ancora oggi per la quasi totalità plasmata sul modello di vita della famiglia tipica: viviamo in appartamenti isolati - anche quando si trovano all’interno di grandi condomini - e come ci ricordano le ricercatrici Azzurra Muzzonigro e Florencia Andreola, “proprio l’isolamento dei nuclei familiari nelle rispettive case può essere visto come condizione che favorisce lo sbilanciamento dei ruoli tra i generi”.

Se la casa, dunque, è il luogo che più di tutti rappresenta la subordinazione delle donne agli uomini, l’abitare collettivo e collaborativo può contribuire a scardinare questo meccanismo? Nelle realtà abitative che mettono la condivisione al centro del progetto architettonico e sociale, la casa può trasformarsi da luogo di isolamento a spazio di mutuo supporto, allargando i confini della famiglia nucleare e modificandone i ruoli. Grazie alla presenza di spazi condivisi e alla promozione di nuove abitudini abitative, formule come il cohousing possono contribuire a creare spazi presidiati, comuni, e protetti dove poter mettere in atto sistemi di cura collettiva, che trasformino i lavori domestici, la cura dei figli, la preparazione del cibo, da mansioni individuali e prettamente femminili, a mansioni collettive. Cosa può significare, per una donna, vivere in una contesto abitativo di condivisione e mutuo supporto tra abitanti? Ne abbiamo parlato con le abitanti di Freedom, il primo progetto di sperimentazione pubblica di cohousing sociale in Toscana, promosso dal Comune di Empoli e dal raggruppamento Freedom Condividere l’abitare.


Di quale lavoro di cura vi sentite in carico e quanto rappresenta un peso per voi?


S.: “La mia cultura di origine è maschilista e patriarcale al 100% e da dove vengo io il compito della donna è sempre quello di occuparsi di tutto. Se c’è da sparecchiare, lavare un piatto, o fare qualsiasi altra attività in ambito domestico, automaticamente è compito di una donna. La nostra cultura è così, ma nella mia famiglia le cose sono un po’ diverse. Se a mio marito chiedo di fare qualcosa in casa, lui la fa, non mi dice “No, non lo faccio perché è compito tuo”, ma ha bisogno comunque sempre che glielo chieda io, di una spinta, non lo fa in autonomia. L’importante sarebbe che l’uomo prendesse l’iniziativa, non importa se poi le cose le fa bene o male. Se qualcosa lo fai oggi e lo fai domani, inizierai a farlo bene, anche meglio della donna. Non è una regola, per cui le donne fanno meglio certe cose e gli uomini altre. Inoltre sarebbe bello condividere anche il carico mentale, come il ricordarsi le cose da fare per i figli, oltre al lavoro quotidiano.”
A.: “Anche avere cura di se stessa, se sei da sola con dei figli, rappresenta un peso. Se la donna non si sente bene, il resto diventa difficile e faticoso: la donna è l’equilibrio della casa, della famiglia, e se può contare solo su se stessa non è facile.”

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O.: “Nella nostra cultura, le donne lavorano come gli uomini e anche il marito aiuta in casa. Io sono cresciuta con l’esempio di mio padre: mia mamma è andata via di casa quando ero piccola e l’ha lasciato solo con sei figli, quindi è stato lui a farci da babbo e da mamma, era lui che faceva tutto. Sbagliamo noi a dire “No, lui non ce la fa”. Se abbiamo sempre la scusa del “Non lo sa fare”, non lo farà mai. In casa nostra, mio marito cucina più e meglio di me, conosce appuntamenti dei bambini che io non so, contribuisce a tutte le attività domestiche: per me è sempre stata la normalità vedere un uomo che fa le cose di una donna, perché l’ho vissuto da piccola.”

Ag.: “Da me è il contrario, il compagno di mia mamma non muove un dito. Se glielo chiedi lo fa, ma di sua spontanea volontà non fa niente. E’ questo che mi fa arrabbiare. Mia mamma per partito preso chiede a me, per esempio, di preparare il pranzo, ma se io in quel momento sono in smart working e sto lavorando, in casa c’è anche lui da poter interpellare per questo.”

S.: “Il peggior nemico della donna è sempre la donna, siamo noi che educhiamo i nostri figli secondo un pensiero che dice “Tu sei il maschio, non ti azzardare a fare le cose della donna sennò sembri una femminuccia”. Se mia suocera vede mio marito che lava i piatti è contrariata, ma in quei piatti ci hanno mangiato i nostri figli, sia miei che suoi. Alla fine non è l’uomo che aiuta la donna, è una collaborazione, un lavoro di famiglia.”

In che modo l’abitare collaborativo contribuisce - o potrebbe contribuire - a migliorare le cose? Cosa significa per te vivere in un contesto abitativo come Freedom?

S.: “Quando abbiamo organizzato l’attività di pulizia collettiva degli spazi comuni, mio marito non si è tirato indietro, anche se è un’attività considerata tipicamente femminile. Ma non sapeva da che parte rifarsi, non essendo molto bravo a fare le pulizie, e chiedeva sempre tutto a me. Però unendosi agli altri vicini, in un gruppetto dove c'erano già altri uomini più pratici di lui, piano piano gli hanno spiegato cosa fare e si sono divisi i compiti. Ora inizia a rendersi conto di cosa deve fare e io non devo continuamente spiegargli tutto. Stessa cosa per la spazzatura. Mio marito la sera mi dice “Vado io a buttare la spazzatura”, ma io so che non fa bene la raccolta differenziata e allora gli dico “Lascia, lo faccio io”. Potrebbe invece andare a buttare la spazzatura con il vicino, che gli spiega come differenziare le cose. Così diminuirebbe il mio carico mentale e fisico.”
A.: “La preparazione condivisa dei pasti è una cosa che aiuta molto. Quando abbiamo fatto la cena marocchina abbiamo cucinato per tutti gli abitanti del cohousing. Cucinare richiede molto lavoro, carico mentale, organizzazione. Richiede concentrazione e sforzo. A Freedom, avendo una cucina comune, potrebbe essere bello che un giorno alla settimana qualcuno prepara per tutti, a rotazione. Così le altre famiglie si siedono e mangiano. Una volta a settimana so che qualcun altro si prenderà cura di me, della mia famiglia. E’ una cosa che mi toglie molto stress, sapere che qualcuno sta cucinando per me.”

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O.: “Sì, avere qualcuno che pensa a te e ti prepara qualcosa di caldo è importante. Una sera sono rientrata stanchissima dal lavoro e la mia vicina S. mi ha chiamata dicendomi che aveva cucinato del cous cous in più e chiedendomi se lo volevo. Sono stata felicissima. Oppure sapere che puoi contare su altre persone al di fuori del nucleo familiare per la cura dei bambini: molte volte i miei vicini mi hanno aiutata prendendosi cura dei miei figli quando io non potevo farlo.”

Come potremmo migliorare gli spazi comuni del cohousing per rendere più condiviso il lavoro di cura all’interno della comunità abitativa?

S.: “Potremmo partire dallo spazio per i bambini. Abbiamo allestito uno spazio per i bambini al secondo piano, arredandolo con quello che loro stessi ci hanno indicato durante un piccolo laboratorio di coprogettazione. Ma quando noi siamo riuniti nella sala comune del primo piano, loro fanno avanti e indietro. Vogliono giocare, ma anche stare con noi.”

Ag.: “Forse mettere tutte le loro cose in uno spazio definito del condominio non è il modo migliore per rendere collaborativa la cura dei bambini. Se noi mettiamo tutte le loro cose in quella stanza, quello che comunichiamo è che loro sono confinati lì insieme a chi in quel momento se ne sta occupando, che siano i genitori o la vicina di casa, e restano separati da tutto quello che succede nel resto del condominio.”
O.: “Se creassimo degli spazi dedicati a loro in ogni luogo del cohousing, i bambini potrebbero essere accuditi da chiunque delle persone presenti in quel momento. Mentre noi facciamo le nostre cose da grandi, loro hanno uno spazio insieme a noi. E mentre io sto partecipando alla vita comune del cohousing ci sono altre persone - i miei vicini - che stanno tenendo sotto occhio mio figlio, anche se non è loro figlio. Diventa un compito collettivo e non solo della madri e dei padri.”

Gli abitanti e le abitanti del cohousing Freedom stanno sperimentando un contesto abitativo dove la sfera domestica diventa in qualche modo collettiva e non è più esclusiva responsabilità delle donne o delle singole famiglie. La cura, intesa in quest’ottica, viene socializzata e può trasformarsi da strumento di oppressione a strumento di emancipazione, anche maschile. Le forme per attuare questa trasformazione sono le più svariate, dalle più semplici alle più complesse, dalla condivisione di un piatto caldo alla presenza e supporto in caso di bisogno. Allenarsi a condividere, prendendosi delle responsabilità e cedendone altre nel panorama del lavoro di cura, è una palestra educativa importantissima per tutti, uomini e donne. E forse, in questo sforzo collettivo, le forme dell’abitare collaborativo nella loro definizione spaziale e funzionale possono davvero aiutare concretamente a ripensare un’organizzazione sociale con nuovi ruoli e responsabilità condivise.

Riferimenti:

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